dal Corriere della sera del 31gennaio2008
Il governo di Bangkok non le lascia espatriare: perderebbe gli incassi
Donne giraffa, l'assedio dei turisti
Thailandia, allarme per l'etnia Padaung: biglietto per vederle, come allo zoo
Una donna Padaung con il figlioletto in braccio (Ansa) |
Zember è una ragazza di etnia Padaung. Negli anni '90, il suo popolo ha lasciato l'ex Birmania dei generali, in fuga dall'esercito che rastrellava gli uomini per farli a lavorare come portatori. La «terra promessa» si chiamava Thailandia. Lo stesso Paese che oggi, accusa l'Onu, li sottopone a un altro tipo di sfruttamento, più sottile ma non meno letale: quello del «turismo etnico». Perché le donne Padaung hanno anche un altro nome, coniato per loro da un ormai dimenticato esploratore polacco: «donne giraffa ». Il loro collo appare lungo in modo innaturale grazie all'uso di pesanti anelli di ottone, che pesano sulle clavicole e sul torace.
Nei dintorni di Mae Hong Son ci sono tre villaggi Padaung. Gli abitanti (circa 500) sono profughi birmani; in Thailandia, secondo l'ultimo rapporto dell'Unhcr — l'Alto commissariato Onu per i rifugiati —, sono presenti 133 mila rifugiati. Dal 2005, circa 20 mila sono stati «ricollocati» in altri Paesi: niente più campi dove le giornate si susseguono una uguale all'altra, ma una vita vera, una casa, un lavoro. Fosse pure in un luogo lontano. Una nuova possibilità; ma non per i Padaung. Un gruppo di «donne giraffa» e di loro familiari è bloccato da due anni all'interno dei confini thailandesi. Le carte sono pronte, Finlandia e Nuova Zelanda hanno già offerto la loro ospitalità; «Non riusciamo a capire — ha dichiarato alla Bbc la portavoce regionale dell'Unhcr, Kitty McKinsey — perché a queste 20 persone non sia concesso di iniziare una nuova vita».
L'accusa è netta e senza esitazioni: il governo non vuole lasciar partire i Padaung per il ruolo centrale che rivestono nel circuito turistico. Perché i «lunghi colli» non vivono con gli altri rifugiati; per loro sono stati creati dei villaggi a sé, in cui anche un turista ha il permesso di entrare, purché sborsi una «tassa» da 250 baht (poco meno di 6 euro). Ufficialmente, gli abitanti non possono lavorare all'esterno; la loro sussistenza è legata alla percentuale del biglietto di ingresso che rimane nelle loro tasche. «È uno zoo umano — accusa la McKinsey —. L'unica soluzione è che i turisti smettano di andarci». Boicottaggio, dunque. Il governo, da parte sua, si trincera dietro a questioni burocratiche: i Padaung «non sono rifugiati — spiega alla Bbc il questore Wachira Chotirosseranee —; stando al regolamento, per esserlo bisogna vivere all'interno dei campi profughi» («Ma se sono state le autorità a volere che si stabilissero fuori!», replica la McKinsey). Peccato che un anno fa il senatore Kraisak Choonhavan avesse dichiarato alla Reuters: «I thailandesi, spiace dirlo, sono insensibili nei confronti delle minoranze etniche. E le "tribù delle colline" sono sempre stati un'attrazione redditizia».
Va detto che a molti dei Padaung la situazione non appare così drammatica: «Siamo al sicuro e possiamo guadagnare qualche soldo», concede Mu Pao. Ma i più giovani (tra cui sua figlia Zember) iniziano a farsi qualche domanda. «Sono felice che i turisti vengano qui — riflette Ma Ri —, ma se ci penso seriamente, capisco che lo fanno perché siamo "strani"». Un po' come i viaggiatori che percorrono centinaia di chilometri, in Etiopia, per uno scatto alle donne Mursi con il loro piattello labiale. Per l'antropologo Marco Aime (autore de L'incontro mancato. Turisti, nativi, immagini), «tutto nasce dalla domanda di primitivismo dei turisti, di fronte a cui molte popolazioni "mettono in scena" la propria cultura e tradizione »; è il caso dei Dogon del Mali, in prevalenza musulmani, che «ritornano » animisti ad uso e consumo degli stranieri. «Se da un lato questo permette di uscire da uno stato di povertà, dall'altro c'è il congelamento della creatività. Il boicottaggio? Ha un senso dove, come qui, c'è un meccanismo di sfruttamento. Ma se le tribù sanno gestire l'incontro, dimostrano di essere vive, in grado di rispondere a nuovi stimoli. E di prendere ciò che serve da entrambe le culture».
Gabriela Jacomella
31 gennaio 2008
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